Di diffamazione sui social e altre sentenze

Che le parole siano importanti in molti lo capiscono soltanto quando ciò che hanno scritto, magari d’istinto, sui social innesca una querela e poi un processo ed infine una condanna.

Cercate su google “diffamazione facebook”. Leggerete di querele presentate, solo nell’ultimo mese, contro chi ha postato insulti verso una coppia di donne unite civilmente e apparsa in una trasmissione televisiva; oppure verso il sindaco di un paesino che ha deciso di accogliere i rifugiati; o, ancora, verso i vigili urbani “colpevoli” di aver multato auto in divieto di sosta.

In materia, la più recente sentenza della Cassazione risale a pochi giorni fa: ha stabilito che è colpevole di diffamazione aggravata una donna che in più occasioni sulla sua bacheca Facebook ha definito “cornuta” un’altra donna.
È proprio il reato di diffamazione quello che più spesso integrano le parole ostili scritte sui social, nei commenti dei blog, nei forum.
Secondo il codice penale la diffamazione consiste nell’offendere la reputazione altrui, comunicando con più persone ed in assenza della persona destinataria dell’offesa. Ed è punita con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1032 euro.
Se poi l’offesa avviene tramite la stampa o tramite un “qualsiasi altro mezzo di pubblicità” la pena prevista è persino più alta: da 6 mesi a 3 anni di reclusione o non meno di 516 euro di multa.
L’offesa fatta sui social ricada in questa ipotesi più grave.

Ma la mia bacheca era privata: ho scritto solo rivolgendomi ai miei amici!”, si difendono in molti. I giudici della Cassazione però ritengono non vi sia differenza tra bacheca pubblica o privata.
Non sono stato io! Qualcuno si è intrufolato nella mia rete wireless” è l’altra giustificazione che ricorre spesso, senza però essere provata e che per questo viene bollata come “irreale” da parte dei giudici.
Non c’è solo il reato di diffamazione.

Le parole ostili possono integrare altri reati come quello di minacce; o quello di istigazione alla violenza – aggravata da motivi razziali – come nel caso della donna condannata per aver scritto su Facebook, a proposito dell’allora ministro Cecile Kyenge, “mai nessuno che se la stupri”. Le parole ostili possono avere conseguenze anche sul posto di lavoro: ne sa qualcosa quell’uomo che per altri motivi era stato illegittimamente mandato a casa dalla propria azienda e che dopo un processo durato due anni viene reintegrato nel posto di lavoro. Peccato che il giorno stesso in cui rimette piede in ufficio pubblica un post su Facebook in cui insulta le sue colleghe, definendole, tra le altre cose, “milf”.
Risultato? Licenziato in tronco.
E stavolta il giudice, dopo una disquisizione sul significato della parola “milf” con tanto di citazione tratta da Wikipedia, ha dato ragione all’azienda.

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