Le vite dietro alla timeline

In rete, nei blog e sui social circola un volume spropositato di parole che feriscono, che segnano gli animi, che amplificano la sofferenza di molti e inducono persino alcuni alla violenza. È possibile mettere un argine a queste derive?

La parola non è solo la confezione esteriore con cui esprimiamo un pensiero, ma è la sostanza del pensiero. E il pensiero – non sempre, ma certamente quando è espresso di getto, senza una certa attenzione interiore – è il riflesso del proprio modo ordinario di vedere le cose, del proprio modo abituale di porsi e di fare: la parola è un riflesso dello stile. E le questioni di stile sono tutt’altro che di superficie, la cosa è ben nota in antropologia.

Cambiare stile, allora, non è una cosa da poco: lavorare sulle #ParoleOstili non è ragionare semplicemente sui modi sgradevoli di comunicare. È interpellare le vite che stanno dietro alle parole che compaiono su una timeline.

Naturalmente si tratta di interpellare le vite di tutti e forse la prima sfida per #ParoleOstili consiste proprio nel non creare l’ennesimo gruppo ben circoscritto – quelli che usano parole ostili – da mettere in quarantena. Troppe campagne di opinione finiscono per tracciare nuove linee di separazione tra i “buoni” e i “cattivi”. Una campagna è invece di livello quando riesce a disinnescare la logica della contrapposizione tra persone o tra gruppi, accompagnando tutti a prendere coscienza di quel tanto o poco di “cattiva abitudine” che c’è in ciascuno, e che danneggia (alle volte anche inavvertitamente) la vita di tutti.

C’è poi un altro aspetto da segnalare mentre iniziano a scaldarsi i motori.
Le #ParoleOstili non volano dappertutto, neppure in ambiente social; si materializzano lì dove ci sono diversità che stentano a trovare una via costruttiva per gestire il conflitto e dove si innesca la costruzione del “nemico” (o, appunto, del “cattivo”). È interessante allora capire se sia possibile individuare stili di confronto, praticabili sui social, che consentano di esprimere disaccordo senza che questo evolva automaticamente in avversità e ostilità tra persone.

Il tema è controverso e lo trovo molto stimolante: Piermarco Aroldi ha fatto osservare che i social svolgerebbero oggi molto bene la funzione che la conversazione leggera aveva in tempi passati; conversare di cose per lo più ordinarie e poco impegnative era un modo per conoscersi, per sondare la vita degli altri, coglierne interessi e suscettibilità. Era un preliminare di possibili discussioni più impegnate: un preliminare importante, proprio perché – quantomeno nell’ipotesi di essere tutti benintenzionati – consentiva di sintonizzarsi con la sensibilità dell’altro, istituire una relazione e gestire le (inevitabili) diversità di opinioni, in un contesto protetto dalla reciproca conoscenza e dalla previa condivisione di momenti gradevoli. Cosa accade però se i social diventano prevalentemente il luogo del confronto acceso tra idee forti, saltando il preliminare della conversazione leggera? Ci sono modi per esprimere sui social le diversità di idee senza che il tutto trascenda immediatamente in avversità (quantomeno percepita) tra persone e gruppi? Abbiamo vere alternative alle #ParoleOstili da suggerire nel caso dei confronti dialettici, che si innescano bruciando i tempi dei preliminari?

Insomma, la sfida nel complesso è davvero di quelle interessanti, potenzialmente di notevole spessore culturale. Chi lo sa che non emerga una via per dialogare meglio senza estenuarsi nello slalom (finora fallimentare) del politically correct?
Buon lavoro #ParoleOstili

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