Di privacy in Rete e altro

I recenti episodi che vedono coinvolti Cambridge Analytica, Facebook e le elezioni americane e altri hanno portato all’attenzione del grande pubblico il mai risolto problema della riservatezza dei dati personali.

Su queste vicende molto è stato scritto, spesso puntando sull’aspetto emozionale, con non molta cognizione di causa, e tralasciando, con poche eccezioni pregevoli, analisi ragionate e informate.

 

Per approfondire:

• Cambridge Analytica Explained: Data and Elections

Ma davvero Cambridge Analytica ha manipolato il voto usando i dati online degli utenti?

Guida al caso Facebook-Cambridge Analytica: gli errori del social, la reale efficacia dell’uso dei dati e il vero scandalo

 

Sembravamo esserci dimenticati dei nostri dati personali, affascinati dai mirabolanti risultati (a volte fin troppo esagerati) dei big data e dei recenti sviluppi degli algoritmi dell’intelligenza artificiale: quelli che potrebbero farci arrivare a casa prodotti prima ancora che noi li ordiniamo, o che permetterebbero di identificare azioni criminali prima che accadano, o che fanno sì che si possa parlare con un computer e ricevere risposte su qualunque argomento. Scenari da Minority Report o HAL 9000, insomma.

In realtà chiunque si occupi del complesso mondo delle tecnologie informatiche conosce bene il problema e tenta da parecchio tempo di trovare soluzioni o almeno di metter delle “pezze”. Il problema è davvero wicked, termine poco traducibile che contraddistingue quelli di difficilissima o impossibile soluzione per via dell’incompletezza, della contraddittorietà e della dinamicità della situazione alla quale si riferiscono.

Problemi che pongono, al di là degli aspetti tecnici (assolutamente non sottovalutabili) quesiti etici e morali che riguardano il delicato equilibrio fra riservatezza (privacy) e i vantaggi ottenibili in termini di funzionalità, comodità e opportunità dalle moderne applicazioni, e che, abbastanza ovviamente, coinvolgono un’incredibile serie di elementi diversi e che sono all’attenzione di molte istituzioni, i governi in prima linea.

Oggi stiamo per mandare in esecuzione le nuove norme europee sulla protezione dei dati personali. L’osannato (o contestato) GDPR. Bella iniziativa, anche se c’è da discutere sulla sua reale efficacia. Al di là degli inevitabili e farraginosi appesantimenti burocratici e delle sacrosante dichiarazioni di principio, infatti, le stesse norme prevedono scappatoie di vario genere. La più importante delle quali, forse, è il fatto che si contempla la profilazione delle persone solamente quando il trattamento dei dati è completamente automatico. O il fatto che sia permesso raccogliere dati di qualunque tipo se ciò è in qualche modo utile per il sistema, con tutte le immaginabili scappatoie.

Mi torna in mente un bell’esempio storico. Alla fine del 1675 Carlo II Stuart, re d’Inghilterra promulgò un proclama nel quale proibiva a Londra l’esercizio di caffè:

Poiché è evidente che la moltitudine dei caffè sorti negli ultimi anni in questo regno, […] ritrovi preferiti per oziosi e scontenti hanno prodotto molti effetti dannosi e pericolosi – perché numerosi mercanti e altri vi sprecano del loro tempo, che altrimenti spenderebbero nell’adempimento dei loro doveri e affari, e anche perché in questi locali sono confezionate e diffuse molte notizie false, maliziose e scandalose che diffamano il Governo di Sua Maestà e turbano la pace e la quiete di questo regno…

La proibizione durò non più di un paio di settimane. Impossibile tentare di arginare in questo modo un fenomeno a quel punto molto diffuso, che era entrato nelle abitudini di molti.

Abbiamo sancito, per legge, l’importanza degli utenti a essere informati. Ma funziona? E quel malefico banner sui cookies, che nessuno legge e tutti approvano, è la via giusta? Sono davvero i famosi “biscottini” il nemico da contrastare? Non mi pare. E la cosa è stata anche dimostrata in maniera rigorosa (vedi il bell’articolo Uncovering the Flop of the EU Cookie Law). Peraltro la tecnologia e i protocolli attuali permettono di sapere molto di più e con molti più dettagli (vedi per esempio cosa riesce a fare un banale fingerprinting). E comunque, ci sarebbe da chiedersi quanti davvero leggono le informazioni, clausole, avvertenze, o conoscano certe funzionalità.

È naturale che quando ci si trovi di fronte a fenomeni poco conosciuti, poco chiari e in rapidissima trasformazione si provi a individuare soluzioni, ma spesso lo si fa cercando il “colpevole”. Poi, una volta trovato, ci si rallegra e ci si mette a posto la coscienza con norme, leggi e quant’altro. Mi pare davvero che si stia guardando al dito invece che alla Luna. Il problema principale è che, per quanto apprezzabili, questi tentativi poggiano su una visione del mondo che è ancora quella ottocentesca, dove tempi, spazi e confini erano abbastanza ben definiti. Molto difficile, oggi, pensare ancora in questi termini. Forse ha ragione Richard Stallman nel ritenere, provocatoriamente, che l’unica soluzione vera sia quella di proibire del tutto la raccolta di questi dati.

La questione richiederebbe invece analisi molto più approfondite e ragionate, come quelle che, per fortuna, alcuni stanno facendo. Un esempio è il gruppo di lavoro di Walter Quattrociocchi, impegnato sul fronte disinformazione.

Ma oltre alle “iniziative istituzionali” molto possono fare i singoli. Un uso consapevole degli strumenti disponibili è forse la migliore difesa contro gli eccessi e le storture della Rete. Rete che resta un ambiente dalle incredibili possibilità e di incredibile fascino. Come dice il saggio Vincenzo Moretti nel suo libro Il coltello e la Rete: “… l’uso di qualunque tecnologia [ha] bisogno di un atto di consapevolezza individuale, di una assunzione di responsabilità che in nessun caso […] può essere delegata a una macchina, per quanto intelligente essa possa essere.”

Nella presentazione del recente libro di Matteo Grandi, Far Web si legge:
Insulti, discriminazioni di ogni genere, misoginia, istigazione alla violenza, omofobia, fake news dal retrogusto razzista e anti-scientifico, revenge porn. Solo per citare le manifestazioni più evidenti. Non c’è alcun dubbio che la Rete, in particolare con i social media, sia diventata un luogo nel quale scaricare rabbia e frustrazioni senza sensi di colpa, in cui attaccare ferocemente personaggi pubblici o emeriti sconosciuti con la sola colpa di avere opinioni diverse. A monte di questa valanga di fango sembra esserci l’idea che internet sia una zona franca, un Far Web in cui non esistono regole, in cui vige l’impunità e dove è legittimo e pratico farsi giustizia da sé.

La consapevolezza, la conoscenza, l’uso ragionato degli strumenti, il buon senso, ma soprattutto la comprensione del fatto che il mondo online, oggi, non è più separato né separabile da quello offline dovrebbero indurre tutti gli “uomini di buona volontà” a riappropriarsi di comportamenti degni di quella civiltà della quale tanto ci si vanta.

Non molto si può fare per proteggere i dati personali in un mondo nel quale l’utilizzo di strumenti tecnologici è così diffuso e sofisticato, ma sicuramente una maggiore attenzione a quel che si fa e si “comunica” in Rete e a come lo si fa può aiutare ad alleviare il problema, al di là delle norme e dei regolamenti esistenti e futuri.

Queste considerazioni sono poi quelle che fanno da fondamento al Manifesto della comunicazione non ostile, un impegno di responsabilità condivisa per creare una Rete rispettosa e civile, e di tutte le iniziative che il gruppo che lo ha promosso sta prendendo.

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